Critica a cura di Tommaso Strinati

Lo scenario urbano e l’umanità che lo vive costituiscono il fil-rouge che lega le opere recenti di Roberto Bosco; è un rapporto difficile, tante volte battuto dall’arte, dal cinema, dalla poesia, dalla musica, dalla letteratura, ed è per questo che cimentarsi con esso è già una sfida in se, un ripercorrere strade e temi che hanno segnato tanta parte dell’arte del Novecento.

Non c’è retorica nelle opere di Bosco, né un citazionismo che sembrerebbe a esse sotteso.

L’umanità che incede in città più o meno definite (Figure nella metropoli, 2008) ricorda certo subito la forza del Quarto Stato di Pelizza da Volpedo, tanto impressionismo francese di fine Ottocento, ma anche tanto cinema neo realista degli anni Sessanta, da Rossellini a De Sica, e le figure sembrano allora confondersi nei tenui e pittorici chiaroscuri in bianco e nero dei maestri della grande fotografia italiana, da Carlo Di Palma a Peppino Rotunno.

Bosco si concentra su una silente marea umana che non guarda mai negli occhi lo spettatore, sembra accettare uno stato di resa, di laconica indeterminatezza; ne gli Anonimi (2006), l’approccio al tema è quanto mai cinematografico: l’occhio di Bosco si avvicina scaltro nel mezzo della folla che scende da un tram, e non si può fare a meno di pensare al più classico dei movimenti di macchina sul set, al lungo braccio del dolly che dall’alto fa calare la macchina da presa nel punto esatto di una scena, all’interno di un colloquio, in un piccolo particolare che pochi secondi prima non potevamo aspettarci.

Bosco in questo caso arriva davanti ad un uomo con giacca beige e camicia azzurra, la testa bassa, l’aria pensosa, e accanto a lui altri personaggi sempre assorti nei loro pensieri, ma visibilmente stanchi, quasi annientati. La scena potrebbe svolgersi negli anni sessanta, lo ricordano i cappelli degli uomini e delle donne, potremmo essere in primavera, tutti infatti portano giacche leggere, eppure sembra di sentire il freddo di una serata milanese in inverno.

Ma è questa la forza delle opere di Bosco, il senso empatico che esse comunicano, il portare lo spettatore a voler entrare di più nella scena, esattamente come in un film. Vorremmo parlare con la signora con il cappello sulla destra, con il personaggio che indossa il cappello a tese e la giacca a righe che precede il protagonista, e naturalmente con la figura in primo piano. Bosco, d’altronde, è anche un noto autore e regista di commedie radiofoniche e questa sua vena narrativa viene fuori nei dipinti con naturalezza e semplicità.

Pittura e fotografia, intesa quest’ultima nel senso cinematografico, dialogano continuamente nelle opere recenti di Bosco, e ciò determina dei forti scarti cromatici e di luce che definiscono più o meno le figure nella scena e la percezione dello spazio che ne consegue; nell’Immagine metropolitana (2007), c’è sempre una folla che ci si avvicina e ci sfiora, come in una qualunque passeggiata in città, ma l’uomo col cappello, le donne di spalle con i vestiti rosso e blu, come la città attorno ad essi, si fa indeterminata e palesemente impressionista. Tutto sfuma nel colore, come una sapiente sfocatura nella scena di un film che prelude ad un’altra oppure costituisce un momento di sospensione del racconto.

Ora, non poteva essere altro che Parigi lo scenario privilegiato dei personaggi di Bosco, e la carrellata di dipinti che la vedono in scena costituisce un omaggio appassionato della città che più di ogni altra ha dato ispirazione agli artisti di tutto il mondo, da due secoli almeno.

Bosco, naturalmente, non si mette in competizione con Degas, Manet o Courbet, i grandi padri del colore moderno li lasciamo certamente al Musée d’Orsay, ma ribadisce il diritto e il piacere – soprattutto – di dialogare con i grandi maestri della ville lumiére per trarre da essi un linguaggio originale e interessante.

D’altronde nell’arte, in tutti i suoi campi, il nuovo nasce sempre dallo studio e dalla comprensione di chi ci ha preceduto, e il rielaborare con ingegno e maturità forme e stili del passato recente e remoto è il motore della creatività in senso lato. Nella musica, soprattutto il jazz, non esisterebbe l’improvvisazione se non ci si basasse sui cosiddetti standard, i pezzi base su cui tutti i musicisti elaborano una propria linea creativa.

Bosco elabora i grandi standard – sia consentito dire – della pittura francese con una libertà creativa che si accosta sovente al modus operandi dei jazzisti, all’improvvisazione che si sviluppa più o meno velocemente su un motivo, e propone delle visioni originali che puntano sempre l’obiettivo su un’umanità silente, della quale non siamo autorizzati a violare l’intimità e la cosiddetta privacy, com’è d’uso dire oggi.

Ne l’uomo che guarda (2008) lo standard è naturalmente l’Absinthe di Degas, il dipinto che forse più della Monna Lisa di Leonardo – ma da meno tempo, essendo stato dipinto nel 1876 – stimola le corde degli artisti di tutto il globo, e non solo pittori. Eppure Bosco si avvicina a questo monumento dell’arte di tutti i tempi con sottile garbo, cambiando il punto di vista – non siamo più noi a guardare i bevitori ma è l’avventore del bar a guardarsi attorno – e di conseguenza l’intero approccio alla scena. E’ come, allora, se fossimo seduti accanto ad Ellen Andrée e Marcellin Desboutin, in un pomeriggio parigino della fine dell’Ottocento, a guardare cosa succede in strada. E Bosco immagina una giornata piovosa, con gente di spalle – tutta – che si nasconde sotto gli ombrelli, mentre il personaggio-spettatore poggia il gomito sullo stesso tavolo di Degas, forse in quello stesso locale. Ma questa volta il piano di marmo con i bicchieri vuoti va verso una piazza gremita e non dentro il locale, non dentro le vite dei personaggi assorti nell’alcool.

E’ un dipinto, l’uomo che guarda, che non suggerisce in realtà nessun paragone pericoloso, ma fa capire come nel momento in cui si abbia qualcosa da dire su un classico della pittura – o su qualsiasi opera della creazione umana – il risultato sia poi degno di nota.

In Figura in rosso e in grigio (2007), il registro stilistico cambia ancora, lasciando spazio all’incompiuto, o al voluto minimalismo nell’uso del colore. C’è solo una sagoma femminile in rosso, di spalla, che possiamo supporre essere un donna sensuale, il resto sono figure che si perdono nell’aria, ombre che, come di consueto, si avvicinano allo spettatore solo per sfiorarlo.

Un colore steso a grandi campiture, a colpi di spatola più che di pennello, e con acuto senso materico e luministico, è il tratto che caratterizza opere come Paris (2007), o l’Abbraccio (2008), dove ci si trova sempre più immersi nello straniante subconscio di città reali o immaginate, in scene che restituiscono la latente e reciproca estraneità che si coltiva nei contesti urbani.

Opere come Ragazza con i calzini (2006) sembrano realizzate da Bosco in anni lontanissimi dalla più recente produzione, eppure in questo caso siamo a uno o due anni di distanza dal corpus sino ad ora indagato; la figura è qui delineata con pazienza e meticolosità, attraverso una luce dorata e soprattutto un atmosfera rarefatta alla quale non è estranea la pittura di Donghi, di un realismo magico rivisitato e semplificato nel tratto, ma efficace nella resa finale. Questa stessa sensazione materica e strutturale della pittura la ritroviamo nella Bevitrice e nell’Incontro, opere che suggeriscono un ricordo guttusiano, un gusto scultoreo nella sovrapposizione spessa e cangiante del colore. Due episodi felici dell’ultima fase sono i Tetti di Parigi (2008) e Montmartre (2009), dove Bosco si misura con un registro rigoroso e geometrico nel più classico degli scenari parigini. I tetti visti dalle mansarde diventano un’occasione per usare un repertorio di semplici incastri di linee e angoli, in una visione caleidoscopica e minimale attraverso la quale Bosco sa essere comunque aderente alla realtà.

Figure in grigio e Pigalle (2009, entrambi) sono due testimonianze del camaleontico stile di Bosco, incredibilmente diverso da se stesso in opere realizzate a così poco tempo di distanza l’una dall’altra.

La prima è un pezzo di bravura sull’uso della luce; un fascio intenso che viene dalla destra della scena investe in pieno sagome di uomini incravattati che incedono sulla strada; una luce bianchissima rischiara le figure per metà dandole un tono solenne, che ricorda certi bozzetti di Sironi. Sulla destra, la figura del ciclista costituisce per Bosco una immagine ricorrente, declinata in altre opere come una sorta di apparizione felliniana. Pigalle è forse l’opera che più di tutte sembra pendere ispirazione dalla pellicola; il profilo di un uomo con occhialini tondi fa capolino alla destra della scena, dove si vede una strada del celebre quartiere parigino sotto la pioggia. Sembra proprio una comparsa che non si è accorta di passare davanti alla macchina da presa, o un curioso che per un attimo entra nella camera ottica del pittore, sbirciando dentro di essa. La scena si apre, il dipinto non è più un perimetro invalicabile a due dimensioni ma uno spazio aperto, un groviglio di colori che diventa vivo e si può toccare con mano.

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