C’è un momento nel percorso creativo di un artista – figurativo o astratto, pittore o scultore – in cui è decisivo confrontarsi con il grande formato, mettersi in gioco in un campo visivo di ampie dimensioni dove è necessaria la massima concentrazione per governare la scena.
Roberto Bosco, reduce da mostre sempre più importati a Pechino (Giugno 2012, Today Art Museum of Beijing; Novembre 2013, China Songzhuang Wuwei Cottage at Art), Doha (Maggio 2012, Doha Exhibition Center), Hong Kong (Maggio 2013, Art Basel) e Berlino (Febbraio-Aprile 2013, Georgia Berlin Galerie), solo per citare le tappe più significative degli ultimi anni, nella mostra organizzata nei suggestivi spazi del Macro Testaccio di Roma appare ad un punto di svolta, risolto nella coerente pacatezza che costituisce dall’inizio della sua carriera lo zoccolo duro del suo linguaggio figurativo.
La grande novità della mostra romana sono i trittici, grandi teleri (volutamente si vuole usare l’antico termine cinquecentesco delle tele da parata veneziane) ad acrilico su tela dove tutta la poetica di Bosco trova il suo spazio naturale, come se il passaggio alla dimensione monumentale fosse il tassello mancante a quella varia umanità con la quale il maestro romano ci ha abituato ad avere a che fare negli ultimi anni.
Si può dire anzi che il passaggio dalla pittura di cavalletto a quella d’impianto monumentale, come sono i sette trittici (450 x 300) e i sette dittici (260 x 190) che vediamo in mostra, abbia dato il giusto respiro alla folla urbana di Bosco. Essa non è mai una marea umana minacciosa: l’incedere delle persone senza volto a piccoli gruppi o in grandi masse sfumate da un’atmosfera di lontana ascendenza impressionista, costituisce parte integrante dello scenario che ognuno di noi vive nella quotidianità. Decodificare il quotidiano, dare dignità al brusio delle persone in un bar, alla folla che va di fretta nella metropolitana, all’incedere caotico degli impiegati che si muovono in branco nella pausa pranzo in centro città, è un esercizio apparentemente facile: eppure notare ciò che si ha davanti tutti i giorni è faticoso, determina un esercizio costante e un allenamento visivo che può farci scoprire sempre qualcosa in più, anche nella strada sotto casa.
Bosco, fine osservatore, ha ormai una sua riconoscibile lirica urbana che riesce a trasfigurare il massivo rumore della folla in una sorta di danza metafisica.
Nei sette trittici che Bosco ha preferito semplicemente numerare, senza indulgere a titoli particolari (cosa che dimostra un’antica serietà nei confronti dello spettatore) vediamo come nell’arco del 2013 il maestro abbia saputo dare alla sua pennellata una forte carica energica, allargando la stesura del colore in campiture ampie, che sembrano abbozzate ma in realtà seguono una precisa impalcatura architettonica, un rigoroso controllo della figura e del movimento della figura nello spazio. Il nero, o il rosso vivo, danno corpo ai contorni delle figure, ne delineano la silhouette con larghe zone scure che danno l’idea di apparizioni notturne, di ombre più che di corpi veri e propri.
È, però, proprio questa estrema sintesi nella interpretazione della fisionomia umana che ne determina un intimo dinamismo, come se la rapidità della pennellata andasse di pari passo al moto perpetuo che Bosco sembra voler dare alla folla. Manca unicamente il brusio della città nelle ultime prove di Bosco, il rumore vero delle voci, del traffico, del confondersi di ogni suono o rumore in una sorta di univoco tono continuo, basso e cupo, che è la vera voce di ogni grande agglomerato urbano che non smette mai di cessare, nemmeno a notte fonda.
Nei trittici di Bosco ritroviamo il Ciclista (olio su tela, 100×120, 2012), felice apparizione urbana risolta in pochi e leggeri tratti, al quale, in uno dei trittici più belli e interessanti della nuova produzione, vengono accostate figure nuove e interessanti: un suonatore di tromba seduto, con pantalone a righe e appena sbozzato, senza colore, e un ritratto d’uomo in piedi, al centro, con occhiali e cravatta a righe e il volto stranamente definito, un vero ritratto. È un trittico dove anche l’uso del colore è nuovo, dall’azzurro intenso del cielo al giallo vivido che riempie la sagoma della città nello sfondo.
Nuova e virtuosistica è la sperimentazione monocroma, sempre in uno dei trittici del 2013, dedicato alla rappresentazione di un concerto di musica jazz, tema caro a Bosco. Le figure in questo caso sono appena abbozzate, in un groviglio di linee che strizza l’occhio alla pittura gestuale americana; la scabrosità delle colature di colore che riempiono disordinatamente il fondo da ancor più energia e impeto alla scena, che sembra assecondare le dinamiche dell’improvvisazione musicale in una stesura materica e ritmica dell’unico colore visibile: nero su fondo bianco.
I dittici del 2013 portano molte novità nella costruzione della scena, con atmosfere inedite per Bosco; in uno di essi, quattro personaggi in giacca e cravatta, curiosamente caratterizzati dal portare scarpette da ginnastica alla moda (le cosiddette snakers), si rivolgono tra loro in una sorta di silente colloquio telepatico, come nelle antiche sacre conversazioni del Rinascimento. Bosco in questo caso frappone tra i personaggi e l’osservatore una griglia impenetrabile, che separa la scena dal resto: è il primo caso in cui volutamente si vuole rimarcare l’esistenza fisica di un punto d’osservazione esterno al quadro, dietro al quale, in terza fila, si pone lo spettatore che guarda.
In un secondo dittico, ambientato in un bar, due figure in primo piano su sfondo rosso e due in secondo piano su uno sfondo urbano, costituiscono un interessante variazione sul tema del dialogo di personaggi in un locale, arricchito da una riflessione sul colore che catalizza l’occhio sulla macchia rossa della parte sinistra del dipinto. Bello e quasi sironiano il lampadario che scende dal soffitto a lambire la testa del personaggio al centro, di profilo; efficace la raffigurazione di bottiglie e bicchieri sulla parte destra del quadro, appoggiate ad un tavolo che divide geometricamente il quadro in tre parti, con un controllo della scena quasi teatrale.
Degno di nota, infine, il dittico Lampedusa, attraverso il quale Bosco dimostra come anche nelle grandi tragedie dei nostri giorni la pittura possa offrire una visione diversa del dolore, venata da un desiderio di speranza che è forse quello che possiamo leggere nel giovane in piedi, con una stoffa a fiori a mò di veste dignitosa, in un elegiaco anelito al futuro.